Piede Cavo

Piede cavo è davvero una definizione eterogenea, che comprende, innanzitutto, soggetti sani, che hanno un fisiologico piede cavo e pazienti malati, che possono avere forme diverse di piede cavo con origini ed evoluzioni diverse.
Il primo messaggio che vorrei dare è che “avere il piede cavo, non significa essere malati”.
Quando però la deformità diventa patologica deve essere studiata, perché è davvero primitivo pensare ad un unico intervento come soluzione unica per il piede cavo.
Ne esistono diversi, con invasività diversa e tempi di recupero diversi. La scelta è legata al “carattere del piede cavo”.
Uso spesso questo termine durante la mie visite e tra colleghi, perché rende l’idea di quanto un piede cavo possa essere diverso dall’altro e di come sia importante comprenderne le caratteristiche per impostare un trattamento che non sia sempre lo stesso, ma che, nella eterogeneità della patologia, si rifaccia ad un algoritmo razionale e puntuale.
Durante il passo, il piede esercita una serie di azioni complesse, in cui deve prima comportarsi da “molla” ammortizzando l’appoggio e successivamente da leva rigida, trasformando in movimento l’energia accumulata “come molla” nella fase precedente.
Questo avviene per ogni singolo passo!
Il piede risponde a questa esigenza attraverso il meccanismo di “lock-unlock” della sottoastragalica.
Semplicemente la sottoastragalica è quell’articolazione data dall’incontro di calcagno e astragalo (la “caviglia bassa”, quella che pronando e supinando contribuisce al movimento della rotazione).
Essa stessa è parte di un complesso più grande, definito peritalare, ossia “intorno all’astragalo”.
È un concetto moderno, ma molto semplice. Immaginiamo l’astragalo come una sorta di sfera imperfetta che ruoti in una scodella, formata da scafoide, cuboide e calcagno. Questo è il complesso peritalare, che abbiamo definito in una nostra pubblicazione sulla rivista scientifica della Società Europea di Chirurgia del Piede e della Caviglia nel 2014.
Quando tale complesso prona, ossia quando il piede diventa più simile ad un piede piatto, la struttura è flessibile e si comporta da molla. L’opposto quando supina ed il piede diventa più vicino ad un piede cavo.
In poche parole, ogni piede sano attraversa un momento del passo in cui funziona in modo simile ad un piede piatto (pronato) ed un momento in cui al contrario si avvicina ad un piede cavo.
Pertanto, un piede fisiologicamente cavo rappresenta un vantaggio negli sport che richiedano reattività ed agilità, come possono essere, per esempio, calcio, tennis, ma in generale gli sport con la palla, che richiedono pronti ed imprevedibili cambi di direzione.
Ecco perché un piede cavo non va corretto o compensato con un plantare a priori, ma solo nel caso in cui questo diventi patologico, ossia “faccia male” o sia instabile.
Quando visito un paziente con il piede cavo, ma in generale, ogni volta che visito, è importante che il paziente capisca.
Ogni percorso di guarigione, infatti, passa attraverso un rapporto di scambio tra medico e paziente, che si fonda sulla comprensione.
Nel caso del piede cavo, trovo molto utile l’esempio del burattino.
Il piede, infatti, si presta a questa immagine: un complesso burattino dotato di innumerevoli “snodi” e corrispondenti alle tante articolazioni.
Queste vengono guidate dai muscoli, attraverso le loro estremità, i tendini, che si comportano proprio come “le fila” tramite cui il maestro burattinaio muove le proprie “creature”.
Ebbene, nelle patologie neurologiche, alcuni nervi non danno l’impulso corretto ai rispettivi complessi muscolo-tendinei. È come se il burattino non fosse bilanciato: questo induce disfunzioni (passo alterato, rischio di inciampare sovente) e deformità.
Nel caso in cui il piede cavo sia indotto da una disfunzione di tipo neurologico è bene, in primis, non spaventarsi.
Al contrario di malattie neurologiche, quelle che affliggono isolatamente il complesso piede-caviglia (le più note sono conosciute come Charcot-Marie-Tooth) non hanno evoluzioni tali da mettere in pericolo la vita del paziente.
Tuttavia, devono essere studiate adeguatamente.
In casi simili, infatti, pianificare esclusivamente un allineamento scheletrico è del tutto insufficiente.
Infatti, se il burattino continua ad “essere poco equilibrato”, l’intervento sullo scheletro non darà beneficio di funzione e, per di più, la deformità corretta sarà destinata a recidivare, perché sollecitata da forze deformanti.
È il motivo per cui non è consigliabile esprimere un parere clinico su un piede cavo semplicemente osservando della radiografie: il momento della visita e dell’incontro con il paziente è fondamentale!
Il mio obiettivo, durante la visita, è di testare la competenza dei muscoli funzionanti ed eventualmente, in caso sia necessario, indagare la loro funzione ulteriormente attraverso una elettromiografia, un esame specifico che ci può dare informazioni utilissime sul funzionamento a pieno regime o meno dei differenti complessi neuro-muscolari deputati alla funzione del piede.
Nel caso di una ipofunzione, è possibile pianificare delle trasposizioni tendinee, che, il più delle vote, devono essere associate ad una correzione della deformità.
Infatti, ad un transfer tendineo non possiamo chiedere di “raddrizzare lo scheletro”, per quello esisteranno procedura chirurgiche associate.
Al contrario, un transfer tendineo (o trasposizione) offre un ripristino della funzione ed una riduzione del rischio di recidiva della deformità.
La trasposizione tendinea funziona utilizzando dei tendini funzionati, letteralmente, trasferendoli per metterli a disposizione di quelli non funzionanti.
Per spiegare meglio questo intervento, prendo in prestito un esempio dal giardinaggio.
Infatti, nel caso di un innesto di una pianta su un’altra, ci si comporta in modo molto simile.
Gli ingredienti per il successo sono: una pianta da innestare di buona qualità (il tendine da traspondere), un ricevente sano (il paziente ed il suo piede: il transfer non è una soluzione pianificabile in ogni paziente, età e buona salute sono fattori discriminanti!) ed una sana dose di cura ed ottimismo.
La comprensione della deformità è la chiave del trattamento corretto.
Per prendere ogni decisione, è fondamentale riferirsi ad esami di imaging eseguiti in carico: le radiografie di piedi e caviglie in carico.
Si tratta di semplici radiografie, eseguite chiedendo al paziente di stare in piedi.
Spesso, il paziente si aspetta di trovare una risposta ai suoi problemi nel referto di queste radiografie, che il più delle volte è negativo.
In realtà, è lo specialista che, osservandole, interpreta la radiografia in base a determinati punti di riferimento e ne ricava l’algoritmo terapeutico.
Nel mio periodo negli Stati Uniti, mi sono dedicata anima e corpo all’evoluzione dell’Imaging, studiando le applicazioni di risonanza magnetica e TAC in carico.
Ad oggi, sono strumenti che vengono usati con una finalità descrittiva ed esclusivamente in centri di riferimento.
Il frutto dei miei studi, condotti presso la Hopkins University di Baltimora (US), una delle università Americane più all’avanguardia in questo campo, mi ha convinto che il futuro della pianificazione passerà attraverso soluzioni di imaging che combinino carico e tridimensionalità, come TAC (Cone-beam) e Risonanza magnetica in carico.
Ad oggi, però, il primo esame su cui fare diagnosi resta la radiografia.
In casi selezionati, durante la visita, dò il consiglio di pianificare un esame tridimensionale (TAC e Risonanza magnetica) in carico, oggi eseguibile anche in Italia.
Oltre a questo, il mio periodo di lavoro negli Stati Uniti, presso il padre della Chirurgia del Piede, Mark Myerson, si è concentrato particolarmente sul piede cavo.
Abbiamo, infatti, presentato, all’ultimo AOFAS (Meeting Americano sulla Chirurgia della Caviglia e del Piede – Boston 2018) i risultati del nostro studio, osservando e studiando le correzioni eseguite negli anni ed il loro tasso di recidiva.
Quanto appreso, mi ha convinto sempre di più dell’importanza di disegnare un trattamento che sia “à la carte” per il paziente con il piede cavo, ma, che allo stesso modo sia coerente con un determinato algoritmo terapeutico.
Mi spiego meglio: la deformità del piede cavo deve essere sempre studiata e analizzata nella sua particolarità.
Ogni deformità è diversa dall’altra.
Le differenti deformità sono, però, riconducibili a patterns caratteristici (quadri comuni specifici), che le contraddistinguono e che permettono un trattamento davvero standardizzato e riproducibile, pur nella sua peculiarità.
Questo è il frutto di uno studio recentissimo che ho eseguito e finalizzato al mio ritorno in Italia e che ha dato i suoi frutti in una recente pubblicazione, accettata sulla rivista di riferimento del settore Foot And Ankle Clinics.
È stato per noi un lavoro davvero enciclopedico, che per la prima volta, ci ha permesso di analizzare nella sua complessità il piede cavo e proporre una classificazione ed un algoritmo terapeutico fruibile ed affidabile per ogni chirurgo nel mondo.
È davvero uno studio che, ad oggi sento come il risultato dei mie interessi scientifici, sviluppati prima in Italia, poi negli Stati uniti e poi di nuovo nel mio team in Italia e che oggi sono felice sia a disposizione del mondo scientifico.
Oggi, quando visito un paziente in studio con un piede cavo, in base a questo nostro studio, sono in grado di spiegare nel dettaglio dove saranno le incisioni, disegnandole sul suo piede, quali saranno le ossa ad essere coinvolte nella correzione e quali tessuti molli (muscoli e tendini, legamenti) ed, infine, essere precisa su possibili aspettative e tempi di recupero.
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